L’uomo molto spesso copie gesta disumane in barba non solo ai suoi simili ma soprattutto alla Natura che le è Madre.
Una spietatezza senza limiti riscontriamo nei Romani, non solo in battaglia, in cui forse questo attributo fu centrale nelle vittorie assieme alla tattica senza eguali.
Taluni ritengono che i motivi della follia e ferocia sia stato l’avvelenamento da piombo, che provoca una follia detta saturnismo, piombo che era un materiale molto usato per la fabbricazione di tubature e utensili, tra cui anche pentoloni e otri per contenere il vino.
Senz’altro tra i popoli della antichità meno rispettosi della Natura vi furono i Romani, che provocarono l’estinzione di leoni ed altre belve nel Sud Italia e nel Peloponneso, ove già la presenza era sparuta, ed una vera e propria estinzione sistemica nel Nord d’Africa, tanto che si organizzavano spedizioni nell’Africa Nera per reperire tali animali.
Lo scopo, farli combattere nei Circhi.
Ma la mostruosità vorrei narrarla partendo da questa incisione ritrovata ad Ostia, specificatamente nell’edificio detto Macellum
Tradizionalmente interpretato come mercato per le carni anche, se recenti studi ne hanno rimesso in discussione la funzione, è posto in uno dei crocevia principali della città.
Si sviluppa intorno a un cortile, le cui murature appartengono in prevalenza alla metà del II secolo d.C.
A una fase successiva -IV secolo- si datano il pavimento e la vasca centrale, realizzati con marmi di recupero, così come il podio con colonnato sul fondo del cortile e il connesso prospetto a nicchie, forse un ninfeo.
Il Macellum è accessibile dal Decumano attraverso un ingresso a colonne, ai lati del quale nella prima metà del III secolo d.C. furono ricavate due tabernae (botteghe), allestite con banchi per la vendita e vasche di marmo, nonché per cibo…da asporto.
L’ambiente a sinistra conserva un mosaico, quello che è oggetto della nostra discussione, raffigurante un delfino che addenta un pesce, con l’iscrizione “inbide te calco” (“invidioso, ti calpesto”).
Tali raffigurazioni contro l’invidia sono frequenti nelle tabernae, come se il venditore volesse dire “Qui Comando Io”.
La ragione, si riteneva che i delfini disturbassero la pesca non solo mangiando i pescetti freschi in acqua ma, addirittura per diletto e contro l’essere umano.
Molti Romani, addirittura, pescavano e consumavano senza problemi carne di delfino.
Unico popolo dell’Antichità, essendo l’animale sacro già dagli Egizi.
Nella cultura greca simboleggiava anche la fertilità femminile, per via dell’assonanza tra delphi, delfino, e delphy, grembo. Ci sono numerosi miti che lo riguardano, ma i principali sono tre: Dioniso ed i pirati, la fondazione di Delfi, per dirne alcuni.
Ovidio ce li racconta. Il primo narra che Dioniso, ancora semidio, chiese ad una ciurma di pirati di portarlo ad Argo da Nasso, ma questi, una volta in mare, progettarono di legarlo e venderlo come schiavo. Il dio del vino venne legato all’albero maestro, ma scatenò la sua ira, trasformando i remi in serpi e rivestendo il vascello con viticci ed edera; davanti a questo spettacolo i marinai si tuffarono in mare, dove vennero trasformati in delfini. Da allora furono amichevoli nei confronti degli umani e spesso salvarono i marinai, sperando così di espiare le loro colpe.
Nell’inno ad Apollo viene narrato che il dio si trasformò in questo animale per poi saltare su una nave di mercanti cretesi diretti a Pilo. Li portò verso Crisa, dove sarebbe sorto l’oracolo di Delfi, e si dice che questi mercanti ne divennero i primi sacerdoti.
Dunque i Greci cui la cultura Romana doveva molto, conoscevano bene questi miti ma erano frequenti, tra il popolo, misure più pratiche, drastiche e terribili.
Nello stesso Macellum, infatti, è presente una statua di delfino cavalcata da un putto, e spesso i Delfini sono rappresentati come cocchieri di Poseidone.
Ad ogni odo ci lascia senza parole come un popolo inventore della Pietas si comporti di tal guisa, è evidente che la Pietas è un semplice riconoscimento del dolore altrui con conseguente tristezza, pena, la Compassione, invece, riconosce l’altro in sé e soffre assieme, con Empatia e Simpatia.
Giovanni Di Rubba