Nell’Antica Roma, accanto ai riti per le divinità tradizionali, ve ne erano di molteplici per divinità potremmo dire “minori” ma essenziali per la sopravvivenza di una famiglia, il focolare domestico (focus) ed il crocicchio (compitum) ambedue da curare e tenere in vita perenne. Quivi si bruciavano le offerte per il Genio -spirito attivo della familia- ed i Penati-defunti-, rispettivamente vino ed incenso.
Ogni famiglia dunque , aveva un Genio ed un Penato che portava con sé ed a cui erano legate le sue sorti.
Anche la gens Pomelia o Pumilia, primi Romani giunti a Pomigliano d’Arco, ne avevano e, dato che il Crocicchio è considerato la proiezione esterna del focolare familiare, sicuramente questi affidarono le strade pomilie ai diversi Lari.
Interessante notare che, quando i Romani fondano una città, gettano in prima istanza il sulcus primigenius, ove sarebbero innalzate le mura urbane ed all’interno un secondo solco di frontiera, marcata appena da una serie di cippi terminali disposti ad intervallo regolare l’uno dall’altro.
Questa linea immaginaria era estremamente importante per i Romani dal punto di vista politico e religioso ed era nomata pomerius. Esso era il luogo abitativo più interno ed il solo inaugurato, soggetta ad uno statuto del tutto particolare. L’assonanza con Pomigliano c’è tutta, considerando che la prima menzione ufficiale della città è riportata da Cicerone e da Valerio Massimo, rispettivamente nel de Officis capitolo I, 10 e nel De Factis dictisue. Memoriae,capitolo VII, 3. Ivi è riportato l’episodio di una contesa giuridica circa la proprietà di alcuni terreni contesi tra Napoli e Nola, il Senato Romano inviò il massimo giurista dell’epoca, nonché console della Res Publica, Quinto Fabio Labeone, quale giureconsulto (giudice arbitro). Egli, infatti, con astuta mossa patronale dichiarò la zona “Campo Romano” sotto le insegne del Senato (“SPQR).
Purtuttavia lo spazio dell’agro Romano è amplio e utilizzare questo trattamento, di dare il nome ad una città dalla sua parte interna, sarebbe inusitato, a meno che ciò non sia avvenuto col passare degli anni dalla fondazione, indicando Pomigliano rispetto alle zone paludose ed ai campi attorno, ma prossimi.
Restiamo quindi dell’idea che il nome sia preso dalla Gens Pomilia o Pumilia lacciando il beneficio del dubbio anche per l’altra tesi.
Senz’altro la Familia Romana aveva in assegnazione un terreno in parte fertile ed in parte paludoso, ed in cui le credenze psicodemografiche erano già solide.
Monsignor Troiano Caracciolo del Sole, a metà del 1700 e degli studi posti i essere da un suo preparatissimo presbitero, don Francesco Borrello. Diremo soltanto che quel ceppo riportava caratteri incomprensibili e, decifrati con novizia dal sacerdote, si appurò trattavasi di lingua Osca. Gli Osci, i Sanniti e poi i Greci giunsero nelle Nostre Terre, portando con sé usi e costumi, divinità femminee della fertilità e della guerra.
Senz’altro il nume tutelare di Pomigliano ha a che fare col Sebeto ed il Suo mito, nonché con culti egizi radicati e misti a quelli Osci e Sanniti.
Il Mito del Sebeto è quello di una divinità fluviale generatrice di vita, un fiume che si estendeva per il territorio della provincia napoletana e percorreva la stessa Napoli, in loco sfociando. Lo si vuole sposo innamorato proprio della Sirena Parthenope, da cui ebbe addirittura, secondo alcuni, una progenie, la ninfa Sebetide che andò in sposa al re di Capri: Telone, dall’unione dei quali nasce Ebalo, primo re di Partenope. Vediamo un po’ di far chiarezza sul Sebeto, “Lo Bono Greco”, come veniva chiamato.
Citato soprattutto ed ovviamente nell’Eneide, precisamente nel Libro VII, da Virgilio, versi 733-740 “Èbalo, te n’andrai, del gran Telone/ e de la bella Ninfa di Sebeto/ figlio onorato. Di costui si dice/ che, non contento del paterno regno,/ Capri al vecchio lasciando e i Teleboi,/ fe’ d’esterni paesi ampio conquisto,/ e fu re de’ Sarrasti e de le genti/ che Sarno irriga. Insignorissi appresso/ di Bàtulo, di Rufra, di Celenne/ e de’ campi fruttiferi d’Avella.”
In questo caso Sebeto non è un dio fluviale ma una ninfa fluviale, Sebeto, madre del leggendario eroe Ebalo. La sostanza non cambia, parlando di miti, e conoscendo la tradizione esoterica del Virgilio mago medioevale, è molto probabile che il mito di Parthenope sposa di Sebeto sia nato per tenerne nascosta la valenza esclusivamente femminea e Sebeto e Parthenope siano in realtà una sola “persona” fusa, parliamo comunque di miti e di leggende, e se è pur vero il ritrovamento di alcune monete che rappresentavano un “giovane cornuto”-il corno era simbolo di vigore e fertilità maschile-, con inciso il nome “Sepeithos” e sul retro una donna alata e la scritta
Ebalo, re di Capri, vero e proprio “paradiso”, non contento si spostò per la Liburia, attirato da Sebetide, la ninfa del fiume Sebeto, dello “Bono Greco”. Giunse qui, a Pomigliano, negli acquitrini circondati dalle terre fertili di Pratola e Paciano, che tanto ricordavano a Virgilio la sua Mantova, alla vicina Castello di Cisterna, acquitrino separato da selve fitte e piene di animali esotici e locali, il Castello di Rufro, da non confondere con quello omonimo del comune di Provenzano, ossia il castello color Rubino, ove c’era la dinastia di Bàtulo, il dotto e sapiente sovrano dalla lunga toga e quella di Celemne, il sileno dei boschi, il grande musico, che era ivi prima degli Osci e degli Etruschi, e prima dei Sanniti col loro Serapim.
Serapim è un sileno, un Satiro, spesso identificato con Celemne ma dalla sua radice deriva anche la parola Serafino, una delle classi degli angeli Cristiani, la più alta.
Lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita nel De coelesti hierarchia li descrive come “coloro che accendono e mantengono il fuoco divino”
“Il nome Serafini indica chiaramente la loro incessante ed eterna rivoluzione attorno ai Principii Divini, il loro calore e ardore, l’esuberanza della loro intensa, continua, instancabile attività, e la loro tendenza ad assimilare ed elevare al proprio livello di energia tutti coloro che sono più in basso, infiammandoli e bruciandoli con il proprio calore, e purificandoli interamente con una fiamma ardente e divorante; e con una lampante, inestinguibile, inalterabile, raggiante e illuminante energia in grado di disperdere e distruggere le ombre delle tenebre.”
Tommaso d’Aquino nella sua Summa Theologiae cita i Serafini parecchie volte, sostenendo che possiedono l’eccellenza dell’ardore nella carità, offrendo una descrizione della loro natura:
Secondo il racconto biblico del profeta Isaia, i serafini glorificano Dio e circondano il suo trono cantando “Santo, santo, santo è il Signore Onnipotente, tutta la terra è piena della sua gloria”.
Gli studiosi della Bibbia credono che i serafini siano servitori personali di Dio.
La mitologia egizia, all’epoca radicata a Pomigliano, mostrava una creatura conosciuta come “seraf”, che era metà aquila e metà leone che conducevano i sovrani eceduti in cielo. Altri ritengono che la parola “serafino” abbia avuto origine dalla parola assira “sharrapu”, che è collegata al dio del fuoco babilonese, Nergal.
Di più Serapis è altresì l forma grecizzata di Oris-Apis, il dio toro che fu elevato di grado identificandolo con Osiride. Neras divinità della fertilità e indossava un kalatos, copricapo simile ad una cesta, circondato da spighe.
Ma il medesimo poteva indicare anche un dio universale che univa le caratteristiche di Zeus e di Ade..
Il suo tempio si trovava ad Alessandria d’Egitto, il Serapeum, e presto si diffuse a Roma identificato spesso con il sole, Helios.
Serapis e Sepeithos riteniamo dunque essere numi tutelari della nostra terra, spesso uniti o in commistione, una terra che fluiva verso il mare, abbracciando Partenope o, se si vuole, Ebalo.
Un ultimo appunto. Ironia della sorte il termine Pomilia o Pumelia significa letteralmente nano, ed i nani nella mitologia Romana erano associati al fuoco-come aiutanti di Efesto- ed erano alresì sileni.
Una città protetta dunque dal fuoco e da divinità che garantiscono la fertilità.
Giovanni Di Rubba
Bibliografia
AAVV-a cura di Umberto Eco; L’Antichità vol 11; Publischer; 2013
AAVV Angeli Demoni e Dei; Mondadori 2006
Fonti
Dionigi, De coelesti hierarchia
Tommaso d’Aquino; Summa Teologica