L’altro giorno si discettava di rivoluzione, anche quella di Masaniello non fu una vera rivoluzione, come ci volle fare credere la retorica agiografica risorgimentale, tanto che fu fatta al grido di «Viva ‘o Re ‘e Spagna, mora ‘o malgoverno!».
Fu, più che altro, un tentativo per ottenere dal potere una vita un poco migliore (la rivolta era scattata per la tassa sulla frutta) per le classi meno abbienti, e nascostamente manovrata da di voleva invece più potere, primo tra tutti don Giulio Genoino.
Ma come diceva pochi anni prima Giordano Bruno: «Chiedere al potere di riformare il potere, che ingenuità.»
Così, Masaniello fu atrocemente assassinato dai suoi stessi luogotenenti, tra la gioia del popolo, il 16 luglio 1647.
Nell’estratto di un bellissimo raccolto di Jean-Noël Schifano, tratto da Cronache napoletane, le ultime ore del generale pesciarolo.
«Allora Masaniello salta giù dalla pedana, fende come un fulmine la folla che brulica sul sagrato e che si spinge invano per superare il tamburo scricchiolante dei corpi pigiati, varca la bassa postierla che si apre, a sinistra del campanile, sul giardino del chiostro, attraversa la sacrestia, sale le due corte rampe di una scala a chiocciola, e si ritrova nella galleria interna che porta, sulla sua sinistra, alle celle dei monaci e alla sua destra, attraverso una porta stretta venata come il marmo dei muri, direttamente sotto il paracielo del pulpito dove appare all’improvviso, angelo decaduto che trascina con sé un enorme brulichio di nere teste immobili sotto il cerchio dorato delle girandole di ceri giganteschi. L’organo con le ventotto canne di rame cinese trattiene il suo vibrante appello trionfale, al grido folle del pescivendolo: «Popolo mio!», e lo stupore disegna il suo ghigno su un paesaggio lunare di ottomila volti che si levano verso l’alto nello stesso istante. «Fammi dire due parole, solo per la mia soddisfazione. Te lo ricordi, popolo mio, in che stato ti avevano ridotto le numerose e pesanti gabelle, le molteplici estorsioni: col culo preso a calci, tu strisciavi come un cane bastonato, squittivi come un branco di zoccole. Per una calza riempita di farina, che tua moglie coccola teneramente e passando la dogana, falso bambino per una fame vera, se lei si faceva prendere, i carcerieri di Castelnuovo, la prima notte, ti riempivano la capa di corna, e se la rivolevi, la tua donna chiavata, senza farina ma forse gravida di un vero bambino, eri costretto a vendere tutto quello che avevi, perfino l’erba ammuffita del tuo pagliericcio!… Ah, i gabellieri dal pelo liscio e dalla mano adunca, tu li hai dimenticati adesso che, grazie a Dio e alla Vergine del Carmine (e così dicendo palpa l’umido scapolare che pende dal suo collo sulla folla), sguazzi nell’abbondanza, e hai pane bianco, pomodori freschi, grasso che sfrigola e che ti fa sbavare: senza gabelle e senza gabellieri. E tutto questo, grazie a chi, popolo mio? E come mi ricompensi delle mie pene, dei miei giorni e delle mie notti? Voltandomi le spalle, popolo ingrato, sputandomi in faccia. Ma non ne importa, già te l’ho detto: io non voglio essere più il duca del popolo. Popolo mio! Tu non hai che un solo duca: monsignore il duca d’Arcos che è, per grazia della Spagna, il nostro padrone. Viva il viceré, viva la feluca, viva la Spagna!… Me ne torno ai miei pesci, alle mie orate, alle rosee triglie, alle azzurre sardine: io non voglio morire, e tu mi vuoi uccidere. lo lo sento, popolo mio, io sono morto, ho visto la Montagna contro di me: mi ha vomitato addosso un diluvio di fuoco, il Vesuvio mi ricopre di lava. Io sono nudo, facce gialle, guardatemi, ma guardatemi, dunque, per la sacra fessa della Madonna Bruna!… Guarda, popolo mio, io non ho più che delle ossa imbiancate …