Questo racconto è una storia verisimile basata su un ritrovamento dell’anno 1857 sul Colle Palatino a Roma, durante gli scavi del Paedagogium, una sorta di collegio di epoca domizianea, destinato in particolare alla formazione dei paggi imperiali provenienti da classi sociali medio-alte.
La raffigurazione è composta da tre disegni: il corpo di un uomo crocifisso con la testa di un animale, un asino; un uomo in adorazione e infine la scritta in greco antico ΑλΕξΑΜΕΝΟς CЄΒΕΤΕ ΘΕΩN (che traslitterata corrisponde ad Alexamenos sebete theon) che significa a sua volta “Alessameno venera [il suo] dio”.
Il testo è scritto con grafia irregolare; utilizza infatti contemporaneamente lettere maiuscole e minuscole senza accenti.
La lettera sigma (σ,Σ) iniziale del verbo sebete (σεβετε) (interpretato come una variante fonetica di σέβεται, terza persona del presente indicativo medio-passivo σέβομαι col significato di “venero, onoro”) è tracciata nel graffito come una sigma lunata.
Questa grafia – che assomiglia, nella forma maiuscola, ad una C in luogo della classica Σ – era tipica dell’alfabeto greco orientale.
ΘΕΩN è storpiatura ortografica di ΘΕON
L’incisione risale al II-III secolo dopo la venuta di Cristo e non può non sembrare uno sfottò dei pagani al popolo Cristiano.
L’incisione è chiamata “Graffito di Alessameno-dal nome della persona oggetto di scherno- o “Graffito Blasfemo del Palatino”.
Essa si trova nel Paedagogicum, una sorta di luogo di insegnamento, quindi potrebbe essere una incisione pedagogica, dato il conservatorismo di Diocleziano o piuttosto effettuata da qualche paggio durante le lezioni.
Purtuttavia ricordiamo che prima di Diocleziano e dopo, a partire col Concilio di Nicea e gli altri a seguire, la religione Cristiana non era avversata in maniera così cruenta, neanche dal popolo e quindi sembrerebbe il graffito frutto di una solipsistica educazione anticristiana oramai tesa al tramonto.
Molti, anche delle classi elevate, e persino alcuni funzionari, paggi erano segretamente Cristiani, dichiaratamente quando potevano.
Ed i Cristiani non erano un corpus isolato, nelle Catacombe officiavano i loro riti e non da soli.
Raccolti assieme li immaginiamo, come un sogno, a Roma come tra i cunicoli cimmeri.
Un sogno passato che vorremmo attuale. Assieme, primi Cristiani ed Ebrei.
Attorno all’agape, ognuno prega Dio. Discutono in quei sotterranei.
Li immaginiamo, nel culto e nella venerazione dei defunti assieme.
Che discutevano. Che facevano cultura. Che ponevano in essere quella che, oggi, è la nostra comunità civile.
Cristiani, Mitriaci ed Ebrei.
I Cristiani coi loro Penati purganti, statuette col rython/cornucopia e la situla/patella. A celebrare i natalie, i funerali e i connubinali.
Assieme, nelle grotte da Pozzuoli a Capodimonte a Pomigliano a Cimitile. Come i ragazzi nei Quartieri Spagnoli oggi. Come a Roma
La cultura che nasce dal dialogo.
I Basiliani, monaci alchimisti, vissero anni dopo in quelle grotte.
Anche a Pomigliano. Ereditando quella cultura, una certa sapienza Ebraica. Avvalendosi del nuovo Museo d’Alessandria. Un convento ove sorgeva il Castrum Lucullianum.
La cultura nasce e cresce e si feconda col dialogo tra popoli, e fecondandosi rende fecondi i popoli.
Come questoa risposta che immaginiamo abbia dato Alessameno o un altro cristano allo sfottò.
“Un giorno, nei primi Secoli dopo la venuta di Cristo, un pagano volle offendere un cristiano scarabocchiando nella catacomba ove costui si rifugiava, viveva e pregava, una croce con appeso un asino, dicendo: “Ecco ignorante chi veneri! uomo senza ingegno, un asino appeso alla croce!”. Il cristiano non si scompose e con tono pacato rispose: ” Tu non hai rispetto di chi muore innocente sulla croce? tu chi veneri invece? I nostri martiri muoiono tra le fiamme cantando felici inni di lode all’Altissimo o in preda alle belve del Circolo Massimo. I vostri Imperatori che chiamate dei, invece, bramano gloria e potere e per essa tra di loro si ammazzano e qualcuno, mentre tra le fiamme la nostra Urbe brucia, canta invece inni a Troia, e non muore neanche con onore e dignità. Il nostro Dio non ebbe timore di farsi come noi, umilmente, senza chiedere nulla, per la nostra salvezza, fu condannato dal popolo cieco e dall’ignavia di un tuo governatore.
Tu dici che il mio Dio è un asino, ci chiami ignoranti, dal poco ingegno, ci dici crétein, ma la nostra etimologia è ben altra e più luminosa, significa unto, se sai di greco, significa plasmato dalla terra, se sai di sanscrito.
Ma che ne sai tu di Mida e della sapienza che il tuo Apollo ad egli donò con orecchie per meglio intendere, discernere e percepire?
Tu sai della vostra pax che significa soggiogare ed uccidere, del tuo Imperatore a Capri sub quiens mentre una stella illuminava il sentiero ai persiani e si incarnava il Logos inondando quella pax d’Amore vero?
Tu sai dell’umiltà e della dolcezza dell’asino, tu sai che Giacobbe lodò il suo figlio Issar per la temperanza nomandolo asino?
Tu sai che assieme al forte bue solo l’umile e saggio asino ebbe l’onore di scaldare il mio Dio bambino che non era certo alloggiato in sontuosi palazzi imperiali tra affreschi e porpora ed oro?
Ma dimmi tu a quale dei tuoi imperatori i sapienti e i re dell’Oriente a voi sconosciuto portarono oro incenso e mirra e lodarono genuflessi senza esser convocati e senza carteggi o trattati?
E che sai tu del mio Dio acclamato da tanti, ed anche dai tuoi soldati, in sella ad un asino e non ad un sauro o a un bicefalo alessandrino o ad un iberico destriero come quello dei vostri duces?
E che sai tu che sul pelo di quell’animale restò una croce stampata?
E che sai che non con allori fu acclamato, né con spade ma con le palme della pace?
E che sai tu di un uomo che morì addolorato e abbandonato e rinnegato e sino all’ultimo pregò non per sé ma per chi lo beffeggiava, per chi lo trafiggeva?
E persino il tuo centurione si tolse l’elmo e disse ‘oggi è morto un giusto’. E chi dei tuoi dei vinse la morte? Chi tu vedesti ascendere al cielo? Chi dei tuoi dei è migliore?
Quale parola dei tuoi dei come quella del nostro Dio ci spinge ad amare e perdonare?
Quale esempio i tuoi dei invidiosi nell’Olimpo lontani a te danno?
Solo discordi vuoti, scaltri e senza cuore. Abbracciami dunque fratello se ti si apre il cuore e sgorga una lacrima al mio modesto parlare.
Ti dono la mia pace, che sia con te e con lo spirito tuo. Il mio Dio non è solo mio ma anche tuo Siamo tutti prigionieri ma se insieme liberi. “
Giovanni Di Rubba