Napoli è presentata nella tradizione letteraria come una città pericolosa, in cui si incontrano rischi di ogni tipo. A differenza dei luoghi vicini, che sono immagine perfetta, essa è soprattutto il luogo dell’avventura, della violenza, della frode. Ma non è solo il potere a mostrare segni di degenerazione. La stessa vita quotidiana appare sottratta a qualunque legge. Tuttavia, proprio per sopravvivere, bisogna imparare in fretta la capacità di difendersi dalle minacce e dalle trappole. La notte in mezzo ai vicoli diventa, così, anche un paradossale percorso di formazione.
Vivere a Napoli, si sa, è difficile. Il caso, la violenza, la sorpresa, l’inganno, la beffa sono sempre a portata di mano. Rappresentano un rischio del tutto naturale: come una fatalità a cui si è ormai abituati. Questa idea, tuttavia, non appartiene solo alla sensibilità contemporanea. Al contrario, ha radici davvero antiche. Convive con la forma dei luoghi e con il garbuglio delle strade. Si identifica con la topografia irregolare dei vicoli e dei loro percorsi, che « si deve conoscere a memoria » (come sostiene Domenico Rea) per non perdersi. Questo groviglio di strade, complicato come un labirinto, si traduce, a sua volta, in un « intrico di istinti e di sentimenti ». Genera reazioni e comportamenti opposti, l’uno speculare all’altro. Produce miseria e pietà. Scatena l’impulso della ferocia e, simultaneamente, sollecita le risorse dell’ingegno. Se si risale a testimonianze remote, si trova un’abitudine diffusa, che identifica Napoli come una città dell’ombra più che della luce: un luogo di misteri, di paure, di pericoli e di ambiguità, più che un tranquillo paese della spensieratezza o della pace. Tuttavia, l’idea di una città gaudente e superficiale resiste come un topos che non si cancella. Ma tale convincimento è tutt’al più una semplificazione, che trasforma Napoli nell’archetipo di ogni felicità. Questo pregiudizio emerge, per esempio, nella secca contrapposizione che, ancora nel dopoguerra, enuncia Umberto Saba, distinguendo due modi alternativi di stare al mondo. Alla « bellissima Trieste », città « azzurra » in un paese tendenzialmente rosso o nero, città che « è sempre stata, e forse sarà sempre, qualunque sia per essere il suo destino, una città nevrotica », si oppone proprio Napoli, che incarna il rovescio del dolore e della profondità inquieta : « Trieste è, per così dire, l’antinapoli, dove (intendiamo a Napoli) i nervi si distendono e le complicazioni della vita appaiono meno tragiche ». Cancellata la matrice materiale, restano il folklore e l’insieme dei suoi riti da commedia convenzionale. Le tenebre sono dimenticate e sopravvive solo la pantomima di una recita, la finzione di una supposta allegria di vivere.
Non è sorprendente che proprio a Napoli, Caravaggio dipinga le Sette opere di misericordia, che nascono, come scrive Roberto Longhi, da « un’immersione entro una realtà quotidiana violenta e mimica, disperatamente popolare ». A Caravaggio il tema, di contenuto così profondamente morale, « sarà venuto incontro inevitabilmente, non appena giunto, in qualche crocicchio famoso, rimescolato tra ricchi e poveri, tra miseria e nobiltà ». Così accade che lo scenario, dei luoghi come dei personaggi, diventa immediatamente il riflesso dell’anima di Napoli : « E la camera scura è trovata all’imbrunire in un quadrivio napoletano sotto il volo degli angeli-lazzari che fanno la ‘voltatella’ all’altezza dei primi piani, nello sgocciolio delle lenzuola lavate alla peggio e sventolanti a festone sotto la finestra cui ora si affaccia una ‘nostra donna col bambino’, belli entrambi come un Raffaello […] perché ripresi dalla verità nuda di Forcella o di Pizzofalcone ».
In questi spazi neri la luce arriva come un dono invocato e miracoloso. Il dolore della « verità nuda » si fonde con le opere della misericordia e la miseria si veste di generosa dignità. È la sfida estrema tra la vita e la morte: tra la durezza delle cose e la capacità di resistere in forza di una solidarietà umana troppo umana.
Non c’è dubbio che anche questa esperienza e questa Napoli appartengano ancora a tutti noi.
La Napoli che, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre del 1943, divenne la prima città d’Europa a essersi liberata da sola dai nazifascisti, era una città completamente trasformata e quasi interamente devastata dal secondo conflitto mondiale. Passata alla storia come “le Quattro Giornate di Napoli”.
La Napoli, da sempre capitale delle contraddizioni: bellissima e poverissima, patria di famosi scienziati, artisti, così come di ignoranti senza pari e lazzaroni senz’arte né parte.
La Napoli che merita una classe dirigente competente ed appassionata, che riesca a dotarla di servizi e strutture che escludano la sua inclusione nel “terzo mondo”.
La Napoli che amo!!!
Fotografie di Gino La Gatta